Avv. Nicola Pietrantoni e Maria B. Lanzavecchia – (Italia Oggi, 4 luglio 2022)
Il consulente in materia fiscale può concorrere, nei casi previsti dalla legge, nei reati tributari commessi dal proprio cliente. Perché possa ritenersi integrato il concorso nel reato, non è necessario che questi eserciti una specifica professione, posto che, in assenza di richiami normativi espliciti, alla nozione generale di professionista contemplata dall’art. 13-bis, comma 3, d lgs 74/2000, deve attribuirsi “un significato sostanziale, ricomprendendovi cioè chiunque svolga attività di consulenza fiscale nell’esercizio della sua professione (dunque commercialisti, avvocati, consulenti e così via)”.
Questo principio, già noto alla giurisprudenza di legittimità, è stato recentemente ribadito dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 23095/2022 (motivazioni depositate il 14/6/2022), con cui è stato rigettato il ricorso presentato dalla difesa della persona sottoposta alle indagini preliminari avverso l’ordinanza con cui il Tribunale del Riesame aveva, a sua volta, rigettato l’istanza di riesame presentata da quest’ultima avverso la convalida del decreto di sequestro preventivo d’urgenza emesso nei suoi confronti dall’Autorità Inquirente.
Il caso. Secondo quanto riportato in sentenza, al ricorrente veniva addebitata, in quanto commercialista di un gruppo di società operante nel settore delle pulizie alberghiere, una responsabilità a titolo concorsuale per numerose (19) ipotesi di reato ex art. 2, d lgs 74/2000 (“dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”).
Secondo l’ipotesi accusatoria, le modalità fraudolente poste in essere dal gruppo societario in questione, ricostruite in base alla documentazione (prevalentemente corrispondenza email) posta sotto sequestro, nonché ad accertamenti bancari patrimoniali e al contenuto delle dichiarazioni rese da alcuni lavoratori, sarebbero consistite in una simulazione di contratti di subappalto tra le società operative del gruppo, che si interfacciavano con le strutture alberghiere concludendo contratti di appalto per servizi di pulizia e facchinaggio, e le società subappaltatrici, che solo formalmente avevano una struttura autonoma e distinta rispetto alle prime, ma che, di fatto, “fungevano da meri serbatoi di personale” per lo svolgimento dei servizi oggetto dei contratti di appalto, tramite contratti di lavoro a loro volta oggetto di simulazione. Rispetto a questo contesto di duplice simulazione (dei contratti di subappalto tra le società operative e le società subappaltatrici e dei contratti di lavoro tra queste ultime e il personale), la responsabilità concorsuale del ricorrente, secondo l’impostazione del Pubblico Ministero, sarebbe dipesa dal fatto di aver ricoperto il ruolo di commercialista del gruppo per tutti gli anni oggetto di contestazione, così prendendo parte al meccanismo fraudolento posto in essere dai legali rappresentanti di ciascuna società, con conseguente applicazione della circostanza aggravante a effetto speciale di cui all’art. 13 bis, comma 3, d lgs 74/2000.
L’aggravante in questione, introdotta con la riforma sui reati tributari del 2015, prevede infatti un significativo aumento del trattamento sanzionatorio “…se il reato è commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale”.
La formulazione dell’accusa, posta alla base del decreto di sequestro preventivo emesso d’urgenza dall’Autorità Inquirente, era stata considerata sostenibile sia dal Giudice per le Indagini Preliminari che aveva convalidato l’applicazione della misura cautelare reale (anche) nei confronti del professionista ricorrente, sia dal Tribunale del Riesame.
Il ricorso della difesa dell’indagato. A fronte del rigetto da parte del Tribunale del Riesame, la difesa del professionista ha presentato ricorso per Cassazione lamentando, tra l’altro, l’insussistenza del “fumus commissi delicti”rispetto al ruolo di consulente fiscale ricoperto dal ricorrente nell’ambito del gruppo di società, nonché in relazione al contributo concorsuale offerto da quest’ultimo in relazione alle ipotesi delittuose contestate.
Più precisamente, secondo quanto prospettato dalla difesa, il Tribunale del Riesame, nel proprio percorso argomentativo, avrebbe omesso di verificare se effettivamente all’indagato potesse essere attribuita la qualifica di commercialista delle società coinvolte nel meccanismo fraudolento, essendosi limitato a rilevare che le condotte realizzate da quest’ultimo erano indicative del fatto che fosse “un soggetto a servizio del gruppo”, ragionamento di per sé insufficiente, secondo la difesa, tanto a ravvisare il “fumus” della responsabilità concorsuale del ricorrente rispetto alle specifiche condotte oggetto di accertamento, quanto a giustificare la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 13-bis, comma 3, d lgs 74/2000.
Sempre secondo la prospettazione del ricorrente, il Tribunale avrebbe anche omesso di valorizzare quanto evidenziato in sede di riesame dalla difesa, e cioè che il proprio assistito “…non aveva mai predisposto né trasmesso le dichiarazioni fiscali delle società del gruppo e che tale attività era stata, invece, svolta da altri soggetti estranei alle indagini”.
La decisione della Suprema Corte. Nel rigettare il ricorso, i giudici di Legittimità hanno innanzitutto colto l’occasione per soffermarsi sulla corretta applicazione dell’aggravante di cui all’articolo 13-bis, comma 3, d lgs 74/2000, la cui configurabilità, pur richiedendo che il contributo concorsuale sia offerto nell’esercizio di una “attività di consulenza fiscale” da un soggetto definibile come “professionista” o “intermediario finanziario o bancario”, non presuppone che il soggetto in questione ricopra una determinata qualifica.
Infatti, dal momento che la norma in esame non contiene alcun richiamo ad una professione in particolare, deve ritenersi che la stessa nozione di “professionista” sia stata utilizzata dal legislatore del 2015 in termini generali (non con riferimento a categorie specifiche) e dunque possa essere riferita “a qualunque attività professionale che legittimamente si occupi di consulenza fiscale”.
Su questo tema, i Giudici di legittimità hanno, quindi, confermato il principio di diritto già consolidatosi all’interno della stessa Sezione, ribadendo la necessità di “attribuire alla nozione più generale di professionista, in assenza di richiami specifici, un significato sostanziale, ricomprendendovi cioè chiunque svolga attività di consulenza fiscale nell’esercizio della sua professione (dunque commercialisti, avvocati, consulenti e così via)”(cfr. Cassazione Penale, Terza Sezione, sentenza n. 36212 del 3/4/2019, Martini).
Tanto premesso, passando ad affrontare l’ulteriore aspetto relativo al contributo concretamente offerto dal ricorrente, in quanto consulente fiscale, rispetto ai fatti di reato commessi dai legali rappresentanti delle società del gruppo, la Suprema Corte ha fondamentalmente individuato tre diversi elementi idonei a configurare il c.d. “fumus”della responsabilità concorsuale di quest’ultimo (aggravata per effetto del citato art. 13-bis, comma 3).
Innanzitutto, il fatto che il professionista in questione fosse stato coinvolto nella predisposizione delle fatture, individuate come false dal Pubblico Ministero, emesse dalle società subappaltatrici nei confronti delle società operative sulla base delle indicazioni provenienti da queste ultime, attività che “veniva svolta sia a favore delle cooperative cui era vincolato da un formale rapporto di lavoro quale formale addetto alla contabilità, sia per le società subappaltatrici con cui non aveva alcun formale rapporto di lavoro”.
In secondo luogo, il fatto che questi avesse operato in modo continuativo e per un lasso di tempo considerevole “in favore del meccanismo fraudolento disvelato dalle indagini…”, con conseguente valorizzazione della sua “piena consapevolezza dell’essere le società subappaltatrici mere scatole vuote riconducibili a un unico centro di interesse costituito dal gruppo”.
Infine, il fatto che lo stesso si fosse “interessato anche di attività diverse dalla materiale compilazione delle fatture di concerto con le società utilizzatrici” (ad esempio, la trasmissione delle denunce retributive e contributive per conto di numerose “società serbatoio” di personale in rapporti con il gruppo).
Art. 13-bis, comma 3, d lgs 74/2000 |
«Le pene stabilite per i delitti di cui al titolo II sono aumentate della metà se il reato è commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale» |
Cassazione Penale, III Sezione, Sent. n. 23095/2022 |
«Il dato normativo, per la configurabilità dell’aggravante, non si limita a richiedere che il fatto di reato sia commesso «nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale», ma esige anche che questa sia «svolta da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario». Ciò comporta che la nozione di «professionista» è impiegata in termini generali senza evocare una particolare professione, e quindi può essere riferita a qualunque attività professionale che legittimamente si occupi di consulenza fiscale …». |