di Umberto Ambrosoli – (Corriere della Sera, 12 gennaio 2023)
È ormai evidente che i criteri Esg (ambiente, sociale e governance) sono la più importante novità di questo tempo e finalmente nessuno li sminuisce definendoli una semplice moda. Addirittura, in una sorta di inversione, è l’opposizione allo sviluppo sostenibile a essere tacciata di ideologia, dato che le analisi di autorevoli centri di ricerca mondiali sono concordi nel dimostrare che le imprese che incorporano i principi Esg sono più orientate al futuro, hanno maggiore resilienza alle crisi e mostrano migliori performance.
I passi fatti dalla normativa europea nonché, dall’altra parte dell’Atlantico, le posizioni assunte dai più importanti investitori (di questi giorni sono tre anni dalla famosa lettera del ceo di Blackrock, Larry Fink) hanno dato una spinta fortissima in questi anni per stimolare le aziende a interpretare con determinazione la propria responsabilità nella sfida dello sviluppo sostenibile. Sono stati, infatti, definiti obiettivi, scadenze, criteri omogenei per la misurazione e la rendicontazione degli impegni delle aziende. Soprattutto sono stati identificati negli operatori della finanza i primi protagonisti di questo cambiamento, riconoscendogli la responsabilità di utilizzare le disponibilità economiche per indirizzare eticamente lo sviluppo. Ciò che hanno fatto, raccogliendo in fretta la sfida con determinazione ed efficacia. Tanto che in Europa si è deciso di dare loro ulteriori responsabilità fino ad attribuirgli un ruolo che potrebbe rischiare addirittura di divenire improprio.
Per due ragioni. La prima: istituti bancari e investitori sembrano essere chiamati ad assumere decisioni di politica industriale che spetterebbero ad altri soggetti. Una considerazione che impone un’altra riflessione. Per perseguire la transizione ecologica, si può abbandonare immediatamente una società, escludendola da crediti e investimenti? Senza dimenticare che c’è una guerra in corso e la necessità di affrontare la dipendenza dal petrolio. La seconda ragione: banche e investitori sono chiamati ad assumere un compito che appare quasi di «vigilante» circa l’effettiva partecipazione agli obiettivi dell’Agenda 2030 da parte di quelle aziende a cui concedono crediti o nelle quali investono.
Vedremo come saranno mitigati questi limiti ma intanto osserviamo che il pilastro Environmental è quello verso cui sono stati fatti i maggiori sforzi sia per la consapevolezza del cambiamento climatico che per la più facile misurazione, e comunicazione, dell’impatto di un’azione d’impresa. Solo più di recente si sono iniziate a cogliere le opportunità che il pilastro Social consente. E allora avanti con politiche rivolte soprattutto alla riduzione delle disuguaglianze, all’interno delle aziende o nel tessuto sociale nel quale esse operano. La moltitudine di realtà operanti in Italia nel terzo settore ha offerto facili e importanti occasioni di partnership che alcune aziende hanno saputo coltivare in maniera particolarmente virtuosa, con beneficio diffuso. Ampi e opportuni margini di intervento ci sono ancora nella corporate citizenship, ma la sensibilità a riguardo sta crescendo e il ruolo politico dell’impresa, in tutte le sue componenti, nella comunità nella quale impatta la sua azione non è più tema rilegato alla nostalgia di imprenditori illuminati del passato o alla speculazione teorica.
Tutto bene? No. Verso la Governance c’è stato finora minore impegno. Forse anche per la difficoltà di inquadrare questo pilastro nella prospettiva dello sviluppo sostenibile. Eppure è il cuore. La trasparenza dei processi decisionali, il merito nella scelta dei componenti degli organi societari e del management, nonché la centralità delle tematiche Esg sono il minimo irrinunciabile per poter riconoscere un impegno a favore dello sviluppo sostenibile. La disciplina europea è poi entrata ancora di più nel dettaglio sia per il settore finanziario che per quello delle società quotate e delle grandi imprese. I regolamenti contenuti nel «pacchetto sostenibilità», nonché la proposta di direttiva sulla due diligence societaria sono punti di riferimento recepiti nei codici di comportamento adottati in diversi paesi europei e impongono agli amministratori di considerare i profili Esg nell’attività di indirizzo e strategica, di rendicontare al mercato nelle periodiche informative, nonché di ponderare gli orientamenti degli investitori per lo sviluppo sostenibile. Ciò impone una più pressante riflessione sull’equilibrio tra lucro e sostenibilità. Tema che riguarda il consiglio d’amministrazione, le politiche di remunerazione e il sistema dei controlli interni, organismo di vigilanza incluso. Anche in questo caso, banche e istituzioni finanziarie hanno un compito centrale, spettando loro la selezione dei soggetti verso cui canalizzare le risorse economiche. Ruolo che offre anche l’opportunità di dare l’esempio interpretando al meglio la loro responsabilità.