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Pec offensive senza aggravanti​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​ 

 Non è l’uso di Internet in sé ad attivare l’aumento di pena

La Cassazione in materia di diffamazione: le e-mail sono inviate a un elenco circoscritto

di Nicola Pietrantoni (ItaliaOggi, 04 settembre 2023)

L’invio di una e-mail diffamatoria a più destinatari non fa scattare l’aggravante della diffusione su internet (prevista al terzo comma dell’articolo 595 del Codice penale), che comporta un aumento di pena (reclusione da 6 mesi a 3 anni o multa non inferiore a 516 euro). Il fatto che una comunicazione e-mail, certificata (Pec) o meno che sia, venga indirizzata a un numero circoscritto di soggetti, infatti, non può essere equiparato alla maggiore diffusività che certamente avrebbe un contenuto veicolato attraverso internet (per esempio, sui social media), in quanto potenzialmente accessibile a una platea indeterminata di fruitori. E l’uso del web, in sé, non può far presumere la pubblicità, ossia la diffusività verso un numero indeterminato di persone.

Il principio è contenuto nella sentenza n. 31179/2023 (motivazioni depositate il 18/7/2023), con la quale la Corte di cassazione (V sezione penale), in parziale accoglimento del ricorso presentato dall’imputato, ha annullato, senza rinvio, una condanna per il delitto di diffamazione aggravata (ex art. 595, III comma, c.p.), riqualificando il fatto contestato in diffamazione semplice.

Il caso. Dalla lettura del provvedimento di legittimità emerge che l’imputato, accusato ex art. 595, III comma, c.p., aveva inviato un’e-mail dai contenuti offensivi a un numero circoscritto di persone, tutte appartenenti a una determinata categoria (operatori di un centro commerciale).

All’esito dell’istruttoria dibattimentale, il Tribunale aveva emesso una sentenza di condanna, confermata poi dalla Corte di appello, nei cui confronti l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione.

Tra i vari motivi contenuti nell’atto di impugnazione, la difesa ha lamentato anche l’insussistenza della contestata aggravante (art. 595, III comma, c.p.), proprio per il fatto che l’e-mail, nel caso di specie, non era stata inviata a un numero indeterminato di soggetti, ma a un elenco definito di destinatari.

Per queste ragioni, secondo la prospettiva difensiva, la condotta oggetto di imputazione non integra l’aggravante dell’offesa recata col mezzo della “pubblicità”, circostanza quest’ultima che si realizzerebbe invece quando il messaggio diffamatorio viene diffuso via internet, e cioè attraverso uno strumento idoneo a diffondere contenuti potenzialmente offensivi a una pluralità indefinita di destinatari.

Le motivazioni della sentenza. I giudici di legittimità hanno ritenuto fondata proprio la doglianza relativa all’aggravante in questione, affermando che “non vi è alcun dubbio come, nel caso in esame, la e-mail fosse indirizzata a un numero circoscritto di soggetti, ossia gli operatori del centro commerciale (…), per cui non può individuarsi né la diffamazione aggravata dal mezzo della stampa né dal mezzo di pubblicità; che la mail, infatti, fosse stata veicolata tramite internet non toglie nulla al fatto che essa fosse destinata a un numero determinato e circoscritto di soggetti, non potendosi confondere il mezzo utilizzato per trasmettere la comunicazione con la diffusività della stessa, né con l’uso dello strumento informatico”.

Più nello specifico, la Corte ha evidenziato come “non vi è dubbio, infatti, che internet sia uno strumento idoneo a veicolare messaggi a un numero indeterminato di persone, come avviene nel caso della pubblicazione su un sito internet accessibile a un numero indeterminato di utenti, oppure nel caso di trasmissione di una notizia o di un messaggio su una bacheca Facebook o su altri social network, trattandosi, in tali casi, di modalità di trasmissione di notizie accessibili ad una platea indeterminata di fruitori”.

Secondo i giudici di legittimità, il caso di specie avrebbe invece altre caratteristiche e un impatto completamente diverso proprio in tema di potenziale diffusività del messaggio diffamatorio.

Sul punto, la Corte ha affermato che “…l’invio di un messaggio a singole caselle di posta elettronica riservate, in quanto intestate a singoli utenti, non implica affatto alcuna automatica diffusione a un numero indeterminato di soggetti, non più di quanto una lettera sia suscettibile di essere letta da soggetti diversi dal destinatario”.

I precedenti orientamenti della Cassazione. La Corte, nel provvedimento in esame, ha richiamato e commentato alcuni precedenti giurisprudenziali di legittimità su questo tema.

È stata valorizzata, per esempio, una sentenza in cui si legge che “…mentre, nel caso, di diffamazione commessa a mezzo posta, telegramma o, appunto, e-mail, è necessario che l’agente compili e spedisca una serie di messaggi a più destinatari, nel caso in cui egli crei a utilizzi uno spazio web, la comunicazione deve intendersi effettuata potenzialmente erga omnes…” (Cass. pen., V sezione, sent. n. 44980/2012).

In questo caso, secondo i giudici della sentenza n. 31179/2023, è stato correttamente distinto un uso di internet funzionale a inviare messaggi privati con un uso di tipo differente, quale la creazione di un sito web strutturalmente destinato a un numero illimitato di utenti.

Sono state poi richiamate altre pronunce che hanno valutato l’eventuale sussistenza dell’aggravante in esame ove le modalità di trasmissione del messaggio diffamatorio siano, fin dal principio, potenzialmente destinate a un numero indistinto di destinatari: è il caso, per esempio, dell’invio a una casella di posta elettronica istituzionale accessibile a una pluralità di persone, circostanza che potrebbe verificarsi anche nei casi di trasmissione con modalità più tradizionali diverse da internet (per esempio, sono stati giudicati casi di vaglia postale e di missiva diretta a un’autorità giudiziaria in busta chiusa non recante la dicitura “riservata-personale”, quindi destinata a essere conosciuta anche dagli addetti all’apertura e allo smistamento della corrispondenza).

In questa prospettiva, i giudici della sentenza in commento non hanno condiviso integralmente un precedente secondo cui “la trasmissione a mezzo posta elettronica certificata (Pec) di messaggi contenenti espressioni lesive dell’altrui reputazione integra il reato di diffamazione aggravata anche nella ipotesi di diretta ed esclusiva destinazione a un solo indirizzo mail, in quanto la certificazione garantisce la prova dell’invio e della consegna della comunicazione ma non ne esclude di per sé la potenziale accessibilità a terzi diversi dal destinatario a fini di consultazione, estrazione di copia e di stampa, per la cui prevedibilità in concreto è richiesto, tuttavia, un rafforzato onere di giustificazione” (Cass. pen., V sezione, sent. n. 34831/2020).

In quel caso, la missiva diffamatoria era stata inviata all’indirizzo Pec del dirigente del settore urbanistica comunale, ossia a un sito istituzionale potenzialmente accessibile a un numero indeterminato di lettori.

Condiviso questo principio, i giudici della sentenza n. 31179/20923 hanno però ricordato la distinzione, proprio in termini di maggiore o minore diffusività, tra un messaggio trasmesso attraverso un sito web e quello inviato per posta elettronica privata, quest’ultima dotata di specifiche caratteristiche tecniche che impediscono l’accesso indiscriminato da parte di terzi estranei rispetto agli interlocutori che hanno ricevuto il messaggio.

Il principio espresso dalla Suprema corte. In conclusione, come riportano le motivazioni della sentenza in esame, “…la possibilità che la riservatezza della posta elettronica possa essere violata non significa affatto la trasformazione del mezzo in un veicolo di pubblicità in tutti i casi in cui esso venga usato, posto che proprio le potenzialità del mezzo stesso consentono di individuarne una qualificazione come sistema di pubblicità (siti web e social network, Facebook, ecc.) e un uso esclusivamente privato, non potendo una eventuale patologia incidere su tale distinzione”.

Nel caso di specie, si legge nelle considerazioni conclusive del provvedimento di legittimità in commento, la missiva diffamatoria era stata inviata a un numero limitato di persone e non è stata raggiunta la prova, in sede processuale, che “…le e-mail di tali destinatari fossero fisiologicamente fruibili da una platea indistinta di soggetti, con la conseguenza che deve escludersi la sussistenza della circostanza aggravante di cui al comma terzo dell’art. 595 del codice penale”.