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Fare da tramite non è istigazione

Cassazione sulla scelta della clinica per utanasia

Non istiga al suicidio chi mette in contatto la persona intenzionata a porre fine alla propria vita con una clinica svizzera abilitata a praticare l’eutanasia. Non è rilevante, poi, il fatto che il soggetto interpellato sia anche presidente di una Onlus che promuove proprio il diritto al fine vita e che condivida quindi quella scelta estrema.

Il principio è contenuto nella sentenza della Cassazione, V sezione penale, n. 17965/2024 che accoglie il ricorso presentato dal presidente di un’associazione condannato in fase di appello per aver rafforzato il proposito suicidario manifestatogli da una donna gravemente malata e successivamente portato a compimento presso una struttura in Svizzera.

A parere dei giudici di secondo grado, l’imputato avrebbe consolidato quella scelta attraverso una lunga conversazione telefonica con la signora, a cui erano seguiti alcuni messaggi di posta elettronica nei quali questa lo ringraziava per il supporto e i consigli ricevuti, informandolo anche in merito all’avanzamento della procedura avviata con la clinica elvetica.

La Cassazione, in contrasto con la sentenza di condanna, ha innanzitutto ricordato che il delitto in questione, previsto e punito all’articolo 580, c.p., deve necessariamente risolversi in una forma di istigazione, ossia nella determinazione o nel rafforzamento dell’altrui volontà suicida, ovvero di agevolazione dell’esecuzione del suicidio. In questa prospettiva, secondo i giudici di legittimità, la condotta “…deve assumere una oggettiva efficienza nella causazione dell’evento del reato, la cui produzione deve comunque materialmente rimanere affidata all’azione del soggetto passivo (…)”. In altre parole, è necessaria la consapevolezza, in capo all’agente, dell’obiettiva serietà dell’altrui proposito suicida, al cui rafforzamento la propria condotta deve concorrere; sul piano materiale, invece, il contributo deve influire sulla determinazione del soggetto passivo di compiere il gesto autolesivo.

Su questo ultimo aspetto, la Corte ha condiviso l’impostazione difensiva che aveva valorizzato il significativo intervallo temporale (circa un anno e tre mesi) tra la conversazione telefonica con la signora e l’avvenuto suicidio assistito. La Cassazione, infatti, ha precisato che “…qualora la supposta condotta istigatoria sia di molto risalente all’esecuzione del suicidio, è necessario valutare con estrema cautela la sua effettiva natura condizionante anche in considerazione delle ragioni per cui il proposito suicidario è stato portato a termine solo molto tempo dopo”. La Corte d’appello, sempre secondo la Cassazione, avrebbe omesso di valutare alcune circostanze di straordinaria importanza probatoria: ad esempio, il fatto che i contatti con l’associazione si fossero interrotti sette mesi prima il suicidio assistito e che le pratiche avviate con la clinica svizzera fossero già concluse, nonché il fatto che la signora, due mesi prima di portare a compimento il suo proposito, era stata ricoverata in ospedale a seguito di un ulteriore aggravamento delle sue condizioni di sofferenza fisica e psicologica.

In altri termini, la Corte di appello non avrebbe dimostrato, con la dovuta certezza, l’effettiva influenza della condotta dell’imputato sulla decisione della signora di porre fine alla propria vita.