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Aiuti statali, reati con distinguo

Lo precisa la Suprema Corte. L’illecita ritenzione non corrisponde all’indebita percezione

Può non esser punito chi tiene somme senza avere i requisiti

di Nicola Pietrantoni

Tenere gli aiuti pubblici, ottenuti lecitamente, senza averne più i requisiti? È possibile senza che scatti il reato. Se ne risponderà sul piano amministrativo o civile, ma non penale. L’illecita ritenzione, infatti, non corrisponde all’indebita percezione di erogazioni pubbliche, previsto e punito all’art. 316-ter del Codice penale, che riguarda, invece, la fattispecie in cui si ottiene il contributo attraverso un inganno, con documenti o dichiarazioni false.   

Lo ha precisato la Corte di cassazione, sezione VI, nella sentenza n. 26180/2024 (motivazioni depositate il 3 luglio scorso), con la quale è stata annullata, perché il fatto non sussiste, la sentenza della Corte di appello di non doversi procedere nei confronti dell’imputato per intervenuta prescrizione del reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche.

Per la Suprema corte è reato, infatti, quando si ottengono indebitamente, per sé o per altri, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee, attraverso richieste o condotte dal contenuto ingannatorio: come recita lo stesso art. 316-ter, c.p., mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute.

La contestazione e le precedenti pronunce di merito. Dalla lettura delle motivazioni della sentenza, è possibile ricostruire i fatti oggetto del processo penale: all’imputato, era stato contestato l’art. 316-ter, c.p. in quanto, in qualità di pescatore marittimo e beneficiario di un contributo una tantum per la riconversione professionale in ambito diverso dalla pesca marittima, nel 2012 aveva ricevuto il relativo contributo da parte dell’ente regionale. Il medesimo soggetto, però, avrebbe omesso di comunicare alle autorità la ripresa dell’attività di pesca entro cinque anni dalla cancellazione dal registro dei pescatori marittimi (avvenuta nell’ottobre 2012), conseguendo così indebitamente la somma di 40.000 euro.

Il tribunale, intervenuta la prescrizione, ha dichiarato di non doversi procedere per l’estinzione del reato, provvedimento poi confermato anche in sede di appello.

Il ricorso in Cassazione. L’imputato ha impugnato, avanti la Cassazione, la sentenza di secondo grado, ribadendo di non avere commesso il reato contestato. In questa prospettiva, la difesa del ricorrente ha premesso, innanzitutto, che il proprio assistito aveva legittimamente ottenuto il contributo regionale a seguito della dichiarazione di cessazione dell’attività di pescatore professionale.

Il decreto dirigenziale che aveva disposto l’erogazione del contributo stabiliva espressamente che la ripresa dell’attività di pesca, nei cinque anni successivi alla cancellazione dal registro dei pescatori marittimi, avrebbe comportato la decadenza dal contributo percepito. Sul punto, il provvedimento regionale precisava che “il requisito di pescatore professionale richiede lo svolgimento dell’attività di pesca quale esclusiva o prevalente attività lavorativa, in quanto la stessa impegna il sottoscritto almeno per il maggior periodo di tempo dell’anno e costituisce la maggiore fonte di reddito”.

Nel corso dell’istruttoria dibattimentale, si è accertato che l’imputato era stato trovato a bordo di un peschereccio durante un controllo avvenuto nel luglio 2013, circostanza che secondo il ricorrente sarebbe stata del tutto isolata e inidonea a comprovare la ripresa, in termini pieni e continuativi, dell’attività professionale di pescatore.

La decisione della Corte e l’ambito operativo dell’art. 316-ter c.p. I giudici di legittimità, in accoglimento del ricorso, hanno innanzitutto precisato che la condotta di indebita ritenzione di contributi pubblici legittimamente percepiti non rientra nella fattispecie ex art. 316-ter, cod. pen., (rubricata, fino all’entrata in vigore del dl 25/2/2022, n. 13, “indebita percezione di erogazioni a danno dello stato”) introdotta dall’art. 4 della legge 29/9/2000, n. 300, di ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari (PIF) delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26/7/1995. La Convenzione, all’articolo 1, aveva disposto l’obbligo, in capo agli Stati membri, di considerare reati tutte quelle condotte, anche omissive, finalizzate all’utilizzo o alla presentazione di documenti falsi, inesatti, o incompleti, cui consegua la percezione o anche la ritenzione illecita di fondi provenienti dal bilancio delle Comunità europee.

Il legislatore italiano, come hanno ricordato i giudici nella sentenza n. 26180/2024, quando ha introdotto l’articolo 316-ter all’interno del Codice penale non ha però attribuito rilievo alla condotta di indebito trattenimento del denaro pubblico, ma solo al suo conseguimento in forma illecita.

Per queste ragioni, nella sentenza è stato evidenziato che “…il reato è, dunque, configurabile a fronte di dichiarazioni mendaci e della produzione di falsa documentazione per ottenere l’erogazione di erogazioni pubbliche e non già con riferimento a una dichiarazione veritiera, ma non integrata successivamente dalla comunicazione di sopravvenienza di cause di decadenza (sempre che la stessa non riguardi ulteriori tranches di un rapporto continuativo)”.

Il reato ex art. 316-bis, Codice penale. La Suprema corte, infine, ha ipotizzato l’eventuale consumazione del reato ex art. 316-bis, c.p. (“malversazione di erogazioni pubbliche”) in caso di condotte simili a quella contestata; a differenza dell’indebita percezione di erogazioni pubbliche, questo reato si realizza quando un soggetto “…estraneo alla pubblica amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalle Comunità europee contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, destinati alla realizzazione di una o più finalità, non li destina alle finalità previste…”.

Secondo i giudici, però, nel caso di specie difetterebbe proprio “…l’elemento di fattispecie dell’acquisizione del contributo pubblico mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, in quanto il mendacio (conseguente all’omissione della comunicazione doverosa) sarebbe, infatti, solo successivo all’erogazione”.

Per queste ragioni, la Cassazione ha accolto il ricorso dell’imputato e ha disposto l’annullamento della sentenza impugnata perché il fatto contestato ex art. 316-ter c.p. non sussiste.

Cass. Pen., Sezione VI, sent. n. 26180/2024
  L’indebita percezione di erogazioni pubbliche, ex art. 316-ter, c.p., non si integra quando il soggetto che ha legittimamente conseguito il contributo trattiene le somme senza comunicare all’ente erogatore eventuali successive modifiche dei requisiti per usufruire dei contributi.   Il reato de quo è configurabile a fronte di dichiarazioni mendaci e della produzione di documentazione per ottenere l’erogazione di contributi, sovvenzioni, e finanziamenti pubblici e non dalla comunicazione di sopravvenute cause di decadenza.   La condotta di omessa informazione successiva alla regolare percezione del contributo pubblico può integrare il reato ex art. 316-bis, c.p. (“malversazione di erogazioni pubbliche”) ove si sia in presenza di un’erogazione fondata su un vincolo di destinazione.  
Art. 316-ter, I comma, C.P. (Indebita percezione di erogazioni pubbliche)
“Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640-bis, chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.