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Abbandono rifiuti, è linea dura

La Cassazione precisa quando applicare le sanzioni più pesanti previste all’art. 256 del Tua

Scatta il reato pure se manca la qualifica formale d’impresa

di Nicola Pietrantoni

Che ci sia la qualifica di imprenditore o no non si sfugge dal reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti, previsto e disciplinato dal Testo Unico dell’Ambiente (art. 256, II comma, d. lgs. n. 152/2006) e che prevede sanzioni più pesanti rispetto al caso in cui il reato sia commesso da un comune cittadino (art. 255). Non solo. Non è necessario che ci sia una quantità determinata di rifiuti abbandonati per incorrere nella condanna. Il reato, infatti, può essere realizzato anche occasionalmente, a prescindere dal formale esercizio di un’attività imprenditoriale di gestione dei rifiuti: è sufficiente la situazione di fatto dell’abbandono.

Il principio è stato enunciato dalla Cassazione penale, con la sentenza n. 29076/2024 (motivazioni depositate in data 18/7/2024), che ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da un soggetto ritenuto responsabile, nel giudizio di merito, del reato contravvenzionale di trasporto abusivo e di abbandono di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi (art. 256, II comma, d. lgs. 152/2006) e condannato alla pena di 3000 euro di ammenda, oltre alla confisca del veicolo e alla distruzione dei rifiuti sequestrati. La fattispecie in esame, infatti, punisce l’attività di gestione di rifiuti (pericolosi e non) non autorizzata, che si integra quando è stata effettuata la raccolta, il trasporto, il recupero, lo smaltimento, il commercio e l’intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione. La norma, inoltre, prevede la stessa pena (arresto e/o ammenda a seconda che i rifiuti siano pericolosi o meno) nei confronti dei titolari di imprese e dei responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti ovvero li immettono nelle acque superficiali o sotterranee in violazione dei divieti prescritti dalla legge.

Il caso sottoposto alla Corte. Dalla lettura della parte in fatto della sentenza di legittimità, emerge che il ricorrente, “…alla guida di un autocarro che presentava il cassone di materiale ingombrante (un divano, una cucina e dei mobili, un frigorifero, alcuni bustoni in plastica contenenti indumenti, rifiuti inerti da demolizione, alcuni pneumatici fuori uso di pertinenza di velocipedi), si dirigeva lungo una strada sterrata nei pressi di una masseria, dove, ribaltando il cassone, abbandonava i rifiuti sul margine sinistro della strada interpoderale a ridosso di un canneto”. L’imputato, fermato e identificato da una pattuglia della guardia forestale, aveva esibito un documento attestante l’iscrizione del veicolo, di sua proprietà, all’albo gestori ambientali. Per queste ragioni, il giudice di merito aveva escluso l’estemporaneità dell’attività di trasporto e di abbandono di rifiuti, confermando l’ipotesi accusatoria secondo cui l’imputato esercitava l’attività imprenditoriale di gestione dei rifiuti.

Il contenuto del ricorso. L’imputato ha presentato ricorso avanti la Suprema corte, deducendo, come unico motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 256 TUA e il correlato vizio di motivazione. Secondo la prospettiva della difesa, infatti, l’istruttoria non avrebbe dimostrato l’illiceità della condotta in contestazione: in particolare, la stessa sentenza di condanna avrebbe affermato che l’imputato stesse trasportando autonomamente i rifiuti, con la conseguenza che difetterebbe la qualifica soggettiva: quest’ultimo, infatti, non è risultato essere, in base a quanto emerso in giudizio, titolare di impresa o responsabile di enti.

Per queste ragioni, il ricorrente ha richiamato la distinzione tra il reato ex art. 256, TUA e la previgente disciplina dettata all’articolo 255, TUA (sanzionato solo dal punto di vista amministrativo prima delle modifiche introdotte dall’art. 6-ter, comma 1, del d. l. 10/8/2023, n. 105, convertito con modificazioni dalla legge 9/10/2023, n. 137, che ha attribuito rilevanza penale al fatto). L’articolo 255, TUA, infatti, prevedeva la sola sanzione amministrativa pecuniaria a chiunque abbandona o deposita rifiuti ovvero li immette nelle acque superficiali o sotterranee, in violazione delle prescrizioni normative in materia.

Secondo il ricorrente, inoltre, non potevano ritenersi superati i limiti quantitativi entro cui i rifiuti devono essere raccolti e avviati a operazioni di recupero o di smaltimento. Più nel dettaglio, la difesa ha sostenuto che non vi sarebbe alcun riferimento alle modalità di calcolo del volume dei rifiuti, in quanto sarebbe stato utilizzato un valore di riferimento a misura senza alcuna precisa indicazione di stima.

L’impostazione del Procuratore generale. Secondo la Procura, il ricorso è da considerarsi inammissibile perché la doglianza è generica: il ricorrente, sempre secondo l’accusa, non si è confrontato con lo schema motivazionale del provvedimento, limitando a statuire acriticamente di non essere responsabile della contravvenzione. Sul punto, è stato richiamato l’orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui “…il reato di cui all’art. 256, comma 2, D. Lgs. n. 3 aprile 2006, n. 152, è configurabile nei confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti nell’esercizio, anche di fatto, di una attività economica, indipendentemente dalla qualifica formale dell’agente o della natura dell’attività medesima (Sez. 3, n. 56275 del 24/10/2017, Marcolini, Rv. 272356 – 01; Sez. 3, n. 30133 del 05/04/2017, Saldutti, Rv. 270323 – 01, che ha ribadito che il reato può essere commesso da qualsiasi impresa avente le caratteristiche di cui all’art. 2082 c.c., o di ente, con personalità giuridica o operante di fatto).

La decisione della Cassazione. La Corte, nelle motivazioni alla sentenza n. 29076/2024, ha subito premesso che il ricorso è inammissibile per aspecificità, “…perché non si confronta con la motivazione dell’impugnata sentenza che ha chiarito in maniera adeguata le ragioni per le quali il fatto andasse sussunto sotto l’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 256, d. lgs. n. 152 del 2006”.

In buona sostanza, i giudici di legittimità hanno ritenuto immune da censure l’accertamento dei fatti operato dal giudice di merito: nelle motivazioni, infatti, si legge che “…il quadro probatorio delineato dal tribunale non lascia dubbi in merito alla circostanza che il ricorrente stesse trasportando rifiuti, poi abbandonati secondo le descritte modalità, non da comune cittadino, ma da soggetto che stava esercitando di fatto un’attività imprenditoriale di gestione di rifiuti: la quantità e l’eterogeneità dei rifiuti trasportati ed abbandonati, la circostanza che il mezzo fosse iscritto all’albo gestori ambientali, il fatto che egli ne fosse il proprietario, avendo ceduto in comodato il mezzo alla predetta società, lasciano infatti intendere che, quand’anche occasionale, la condotta gestoria fosse comunque legata ad un’attività di impresa e non svolta come comune cittadino”.

Sull’accertamento del quantitativo di rifiuti. Secondo la Corte, infine, non assume alcun rilievo la censura svolta dalla difesa del ricorrente secondo il quale, non essendosi accertato il quantitativo di rifiuti, non vi sarebbe certezza sulla loro effettiva consistenza. Sul punto, sempre nelle motivazioni, si legge innanzitutto che “…trattasi di un dato assolutamente neutro rispetto alla configurabilità del reato contestato, per il quale rileva non la consistenza del rifiuto, ma la circostanza che quest’ultimo fosse gestito con modalità contrarie alla legge”; sul punto, la stessa Corte ha comunque valorizzato l’utilizzabilità del c.d. metodo spannometrico (valore di riferimento a misura senza alcuna precisa indicazione di stima), richiamando alcune pronunce di legittimità (Cass. pen., Sezione III, sent. 2401/2017; Cass. pen., Sezione III, sent. 40109/2015).

Il principio della Sentenza n. 29076/2024
Il reato di gestione di rifiuti non autorizzata, ex art. 256, II comma, d. lgs. n. 152 del 2006, può essere commesso da qualsiasi soggetto che abbandoni occasionalmente rifiuti nell’esercizio, anche di fatto, di una attività economica, indipendentemente dalla qualifica formale di imprenditore o della natura dell’attività svolta.
Art. 256, commi I e II, d. lgs. 152/2006 (“Attività di gestione di rifiuti non autorizzata”)
(comma 1): “Fuori dai casi sanzionati ai sensi dell’articolo 29-quattuordecies, comma 1, chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208209, 210211212214215 216 è punito: a) con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi; b) con la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti pericolosi”. (comma 2): “Le pene di cui al comma 1 si applicano ai titolari di imprese ed ai responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti ovvero li immettono nelle acque superficiali o sotterranee in violazione del divieto di cui all’articolo 192, commi 1 e 2”.