Avv. Nicola Pietrantoni
La mediazione tra un privato e il funzionario pubblico ha rilevanza penale solo quando è finalizzata a interferire illecitamente sulla attività della pubblica amministrazione e quando porta a un vantaggio per il committente. In altre parole, scatta il delitto di traffico di influenze illecite (art. 346-bis, cp) in caso di accordi aventi a oggetto le illecite influenze su un pubblico agente che uno dei contraenti, il mediatore trafficante, promette di esercitare in favore dell’altro, il privato interessato all’atto, dietro compenso per sé o altri o per remunerare il soggetto pubblico.
La sostanziale indeterminatezza dell’art. 346-bis, cp. Il principio è stato recentemente ribadito dalla Corte di cassazione (sesta sezione penale), con la sentenza n. 40518/2021 (motivazioni depositate il 9/11/2021), intervenuta sulla vicenda giudiziaria che ha coinvolto anche l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno.
Il contenuto della sentenza, al di là dei fatti e delle condotte in essa accertati, è interessante perché offre anche una critica all’attuale formulazione dell’art. 346-bis, cp («Traffico di influenze illecite»).
I giudici di legittimità, da una parte, hanno infatti affermato che per integrare il delitto in questione «le parti devono avere di mira un’interferenza illecita, resa possibile grazie allo sfruttamento di relazioni con il pubblico agente», dall’altra, hanno però rilevato che «la norma peraltro non chiarisce quale sia l’influenza illecita che deve tipizzare la mediazione e non è possibile, allo stato della normativa vigente, far riferimento ai presupposti e alle procedure di una mediazione legittima con la pubblica amministrazione (la cosiddetta lobbying), attualmente non ancora regolamentata».
In estrema sintesi, la descrizione della fattispecie risulta connotata da eccessiva indeterminatezza che si traduce, da un punto di vista giuridico, in un evidente deficit di tassatività dello stesso modello punitivo, con il rischio concreto che ogni forma di mediazione tra il privato e la pubblica amministrazione potrebbe generare una serie di conseguenze di natura penale, considerata anche l’assenza di una normativa che riconosca e regolamenti la fisiologica attività di lobbying.
La struttura del delitto di traffico di influenze illecite. Risponde di questo reato chiunque, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico funzionario, «indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità» come prezzo della propria mediazione illecita, oppure per remunerare il soggetto pubblico a scopo di corruzione. La norma prevede la responsabilità penale anche di «chi indebitamente dà o promette denaro o altra utilità» alla persona che si presenta come mediatore.
L’art. 346-bis, cp è stato introdotto con la legge 6/11/2012, n. 190 (legge Severino) e poi modificato con la legge 9/1/2019, n. 3 (cosiddetta legge spazza corrotti), con cui è stato anche abrogato il delitto di millantato credito (art. 346, cp), la cui condotta è oggi sostanzialmente inglobata proprio nella fattispecie di traffico di influenze illecite: la norma, infatti, punisce anche il soggetto che millantando di avere relazioni (in realtà, inesistenti) con pubblici funzionari, ottiene denaro o altra utilità, attraverso un vero e proprio inganno, per portare a termine una mediazione con un pubblico agente che in realtà finge di poter concludere. Per queste ragioni, la recente giurisprudenza della Cassazione penale ha individuato una continuità normativa tra il reato (abrogato) di millantato credito e la truffa (art. 640, cp) proprio per l’obiettiva presenza di «artifici o raggiri» che inducono in errore la vittima (sentenza n. 28657 del 22/7/2021).
La soglia (troppo anticipata) della rilevanza penale. I profili maggiormente problematici che riguardano l’art. 346-bis, cp originano, da un certo punto di vista, proprio dalle ragioni che hanno portato il legislatore ad introdurre, all’interno nel nostro ordinamento, questa particolare fattispecie di reato.
Nella stessa sentenza n. 40518/2021, la Cassazione ha ricordato che l’obiettivo della norma, introdotta anche per far fronte a obblighi internazionali, è quello di punire «…in via preventiva e anticipata il fenomeno della corruzione, sottoponendo a sanzione penale tutte quelle condotte, in precedenza irrilevanti, prodromiche rispetto ai reati di corruzione». La finalità, in buona sostanza, è reprimere tutti i comportamenti potenzialmente distorsivi del rapporto tra privato e sfera pubblica, in quanto anticipatori (o, addirittura, solo apparentemente sintomatici) di eventuali future corruzioni che forse non si realizzeranno.
Il disvalore penale, dunque, si realizza sempre in un momento anticipato rispetto alla eventuale futura corruzione (che rimane ancora sullo sfondo e che forse non si consumerà mai), in cui il privato, interessato a entrare in contatto con la pubblica amministrazione, promette o consegna una somma di denaro al mediatore come prezzo per la sua attività di mediazione, oppure con la consapevolezza che quella somma di denaro, o parte di essa, verrà impiegata, dal cosiddetto faccendiere, per corrompere il pubblico funzionario.
È evidente che la consegna di denaro al mediatore con la finalità (condivisa da entrambi i soggetti che rispondono del reato in questione) di corrompere il soggetto pubblico si avvicina molto al rapporto corruttivo, ma è altrettanto indubitabile che ciò avviene in una fase in cui il bene giuridico tutelato dalla norma (l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione) non ha ancora subìto una apprezzabile vulnerazione.
La mediazione punita in quanto tale. Le criticità appena descritte assumono una maggiore intensità se consideriamo che ogni attività di mediazione, secondo la lettera della norma, rischia di essere ritenuta sempre illecita e il suo pagamento indebito. Il riferimento è a quelle numerose condotte che pur rientrando astrattamente nel traffico di influenze illecite, nella dimensione concreta assumono connotazioni del tutto estranee non solo alla fattispecie ex art. 346-bis, cp, ma anche a ogni eventuale altra ipotesi di reato.
Tra queste, vanno senz’altro ricordate le situazioni nelle quali il compenso ricevuto dal mediatore è da intendersi come «prezzo» della attività finalizzata esclusivamente a mettere in contatto il privato con determinati uffici pubblici, senza alcuna propensione a generare dinamiche corruttive. Sul punto, sempre la Corte ha evidenziato che «…il contenuto indeterminato della norma rischia di attrarre nella sfera penale, a discapito del principio di legalità, le più svariate forme di relazioni con la pubblica amministrazione, connotate anche solo da opacità o scarsa trasparenza, ovvero quel ‘sottobosco’ di contatti informali o di aderenze difficilmente catalogabili in termini oggettivi e spesso neppure patologici, quanto all’interesse perseguito» (Sent. n. 40518/2021).
La «soluzione» proposta dalla Cassazione. Alla luce degli evidenti profili critici che connotano la fattispecie ex art. 346-bis, cp, che potrebbero tradursi nella violazione di principi fondamentali del diritto penale, la stessa Cassazione appena richiamata, ritenendo necessario «…ancorare la fattispecie a un elemento certo che connoti tipizzandola la mediazione illecita e che costituisca una guida sicura per gli operatori e per l’interprete della norma», ha stabilito che «…l’unica lettura della norma che soddisfi il principio di legalità sia quella che fa leva sulla particolare finalità perseguita attraverso la mediazione», con la conclusione che «…la mediazione è illecita quando è finalizzata alla commissione di un fatto reato idoneo a produrre vantaggi per il privato committente».