Avv. Nicola Pietrantoni e Maria Beatrice Lanzavecchia – (ItaliaOggi, 12 dicembre 2022)
Gli screenshot dei messaggi whatsapp o i messaggi contenuti nella memoria di un telefono possono essere acquisiti nel processo penale e vengono valutati dal giudice in relazione all’attendibilità dei soggetti interessati al pari di altri documenti, senza la necessità di estrarre la c.d. copia forense, ossia la copia integrale del suo contenuto, che rappresenta la modalità tipica per la valutazione e l’eventuale acquisizione di dati informatici nell’ambito di un procedimento giudiziario.
Le comunicazioni scambiate con questa applicazione e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno, infatti, natura di “documenti”, ai sensi dell’art. 234 del Codice di procedura penale e, in quanto tali, possono essere acquisiti tramite mera riproduzione fotografica, senza che trovi applicazione la disciplina relativa alle intercettazioni, né quella relativa al sequestro di corrispondenza (art. 254, c.p.p.).
Tale orientamento giurisprudenziale ha trovato conferma nella sentenza della Corte di cassazione n. 39529 del 19 ottobre scorso (II sezione penale). In essa i giudici di legittimità hanno dichiarato inammissibile il ricorso presentato, nell’interesse dell’imputato, contro la decisione della Corte d’appello di Milano con cui era stata confermata la condanna emessa nei suoi confronti dal Tribunale di primo grado per il delitto di “indebito utilizzo e falsificazione di strumenti di pagamento diversi dai contanti”, previsto e punito all’art. 493-ter del Codice penale.
Il caso. La sentenza in esame non offre molte indicazioni in merito al fatto specifico per il quale si è proceduto, salvo lasciare intendere che all’imputato fossero state addebitate diverse condotte integranti il reato di cui all’art. 493-ter c.p., legate tra loro dal vincolo della continuazione, per avere utilizzato in assenza di autorizzazione la carta bancomat intestata alla persona offesa. La ricostruzione offerta da quest’ultima in giudizio era stata ritenuta pienamente attendibile da entrambi i giudici di merito, con conseguente affermazione della responsabilità penale dell’imputato.
A fronte delle decisioni conformi dei giudici di merito, la difesa dell’imputato ha presentato un ricorso articolato su quattro diversi motivi: uno di natura sostanziale, relativo all’omessa applicazione della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. (“Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”), e tre di carattere procedurale, incentrati sulla presunta inutilizzabilità di alcuni dei mezzi di prova valorizzati nelle sentenze di merito.
Tra i mezzi di prova è stata messa in dubbio la legittimità delle modalità di acquisizione (e dunque l’utilizzabilità ai fini decisori) figuravano anche una serie di messaggi whatsapp conservati nella memoria del telefono cellulare della parte lesa, di cui la stessa aveva riferito in sede dibattimentale e che erano stati acquisiti al processo tramite semplice riproduzione fotografica, senza che venisse condotto alcun accertamento sull’apparecchio telefonico di provenienza e, soprattutto, senza che di quest’ultimo venisse effettuata la cosiddetta “copia forense”.
La decisione della Suprema corte. La Cassazione ha rigettato il motivo di ricorso richiamandosi espressamente al consolidato insegnamento giurisprudenziale in base al quale “in tema di mezzi di prova, i messaggi whatsapp e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen., sicché è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all’acquisizione di corrispondenza di cui all’art. 254 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 1822 del 12.11.2019, dep. 2020, Tacchi, Rv. 278124-01)”.
Secondo l’orientamento richiamato dalla Suprema corte, quindi, i messaggi scambiati tramite applicazione whatsapp devono essere considerati alla stregua di vere e proprie “prove documentali”, motivo per cui, ai fini della loro acquisizione quali elementi di prova in un processo penale, trova applicazione la disciplina prevista dall’art. 234 c.p.p. (“Prova documentale”), ai sensi del quale “è consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”.
Ne consegue che le conversazioni avvenute tramite whatsapp (al pari degli sms) possono legittimamente fare ingresso nel processo penale mediante la semplice acquisizione di un’immagine fotografica che le ritragga, tipicamente un fermo immagine (cosiddetto “screenshot”) realizzato direttamente dal cellulare sulla cui memoria sono conservati i messaggi oggetto di interesse.
Una simile interpretazione agevola notevolmente l’acquisizione, quali mezzi di prova, dei messaggi whatsapp, rispetto ai quali viene espressamente esclusa l’applicabilità della disciplina (molto più stringente) prevista in materia di intercettazione di conversazioni e comunicazioni (artt. 266 e ss. c.p.p.) e di sequestro di corrispondenza (art. 254 c.p.p.).
Sul punto, basti pensare che le intercettazioni possono essere disposte solo in relazione a determinate tipologie di reati, solo per un determinato periodo di tempo e solo all’esito di un “percorso” autorizzativo complesso, che prevede la presentazione, da parte del pubblico ministero procedente, di una richiesta motivata, su cui è chiamato a esprimersi il giudice per le indagini preliminari.
Non solo, una volta che le intercettazioni sono state disposte ed eseguite, l’acquisizione al processo degli esiti dell’attività captativa deve seguire, a sua volta, un iter specifico (recentemente oggetto di rilevanti modifiche normative), finalizzato proprio a garantire, tra le altre cose, la tutela dei soggetti sottoposti a intercettazioni (le cui conversazioni di natura prettamente personale, coperte da segreto professionale o comunque irrilevanti ai fini di prova, non possono entrare nel processo), nonché la piena corrispondenza tra il contenuto delle interlocuzioni intercettate e la relativa trascrizione.
Pur non contemplando limiti altrettanto stringenti, anche la disciplina del sequestro di corrispondenza deve comunque fondare su un decreto motivato emesso dal Pubblico ministero e prevede specifici obblighi in capo all’ufficiale di polizia giudiziaria che esegua il sequestro, il cui scopo, anche in questo caso, è la tutela della riservatezza dei mittenti e dei destinatari della corrispondenza sequestrata, oltre che della genuinità della stessa.
Secondo il principio di diritto elaborato dai giudici di legittimità e confermato nella recente sentenza n. 39529/2022, nulla di tutto quanto sopra descritto trova applicazione rispetto ai messaggi scambiati tramite whatsapp, la cui acquisizione quale elemento di prova è sostanzialmente sottratta a vincoli formali, sia per quanto attiene alle modalità di rappresentazione, sia per quanto attiene alla dimostrazione della piena corrispondenza tra quanto rappresentato e quanto effettivamente conservato nella memoria del cellulare utilizzato per gli scambi.
Non è poi necessario, sempre secondo la Cassazione, che il telefono cellulare sulla cui memoria sono conservati i messaggi che si vogliono utilizzare ai fini di prova venga acquisito (o esibito) unitamente alla riproduzione fotografica di questi ultimi, né che si proceda all’estrazione di “copia forense” dello stesso.
La valutazione da parte del giudice. La (relativa) facilità con cui le conversazioni intercorse su whatsapp possono entrare nel processo penale sposta, inevitabilmente, l’attenzione sulla fase successiva rispetto all’acquisizione del mezzo di prova, ossia sulla sua valutazione da parte del giudice.
Il solo fatto che un mezzo di prova sia stato legittimamente acquisito al processo, infatti, non dice nulla circa il livello di attendibilità e rilevanza che a esso debba essere attribuito, livello che può essere stabilito unicamente dal giudice che è chiamato a decidere del caso.
La valutazione operata dal giudice diviene, quindi, il momento fondamentale in cui possono (e devono) trovare opportuna considerazione tutte le perplessità eventualmente sollevabili circa l’attendibilità dei messaggi whatsapp legittimamente acquisiti al processo tramite screenshot, attendibilità che, come ricordato dalla stessa Suprema corte, non può che essere un riflesso di quella attribuita al soggetto da cui provengono gli screenshot in questione, qualora lo stesso sia stato sentito anche come testimone in sede processuale.
* Studio legale associato Isolabella