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Il vicino mette ansia? È stalking

La Cassazione interviene a definire la differenza tra i due reati nei rapporti tra condomini

di Nicola Pietrantoni; e Ginevra Schnelle 

È stalking e non una molestia il comportamento del condomino che spinge il vicino ad aver timore di tornare a casa o a volersi trasferire. Che provoca, cioè, un continuo e grave stato di ansia e costringe, chi lo subisce, a cambiare le proprie abitudini di vita. Il principio è contenuto nella sentenza della Cassazione penale, quinta sezione, n. 21006/2024 (motivazioni depositate il 28/5/2024), secondo cui il confine tra i due reati, ossia stalking (art. 612-bis, codice penale) e molestie o disturbo alle persone (art. 660, codice penale), sta nelle conseguenze sulle vittime. Si tratta di stalking se è turbata la serenità e l’equilibrio psicologico di chi le subisce. Sussiste invece il reato di molestie, certamente meno grave, se la condotta persecutoria si limita ad arrecare un fastidio alla persona offesa.

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte ha annullato la sentenza emessa nel giudizio di merito, con la quale l’imputato era stato condannato, per il reato di molestie, alla pena pecuniaria dell’ammenda.

Come qualificare l’imputazione? Il Tribunale di Busto Arsizio, con il provvedimento di condanna del 3/5/2022, aveva riqualificato l’originaria imputazione di atti persecutori (art. 612-bis), aggravati dall’odio razziale, nella contravvenzione di molestia o disturbo alle persone: i fatti contestati all’imputato, realizzati nel contesto di un condominio, erano consistiti in numerose e diverse condotte: 

i) l’affissione di molteplici cartelli redatti su carta A4 con cui lo stesso aveva avanzato lamentele in ordine a comportamenti, a suo dire incivili e poco rispettosi, tenuti da alcuni condomini; 

ii) l’utilizzo, anche in piena notte, di utensili quali martelli e frese, al fine di disturbare; 

iii) la creazione di manifesti riportanti ingiurie di ogni tipo, prevalentemente dirette ai conduttori extracomunitari, con offese anche a sfondo razziale, esposti nelle comuni aree condominiali;

iv) infine, altre condotte di prevaricazione, come mettere un lucchetto al cancello di ingresso o nel volere l’ultima parole sulla dicitura da apporre sulla citofoniera. 

In relazione a questi fatti, alcune persone offese hanno riferito, in sede dibattimentale, di avere avuto paura di rientrare a casa, proprio per il timore di trovare l’imputato dietro la porta. Altri condomini hanno manifestato la volontà di trasferirsi altrove, soprattutto a causa del disturbo arrecato dall’imputato, dichiarando di aver vissuto spesso in uno stato di ansia e paura per le reiterate molestie notturne.

Il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero, sempre nel primo grado di giudizio, aveva riscontrato nell’imputato una significativa patologia psichiatrica, collegata “alla costante esposizione al rapporto con il vicinato”, tale da renderlo socialmente pericoloso.

Il giudice di prime cure, con il provvedimento di condanna, ha però qualificato quei fatti in molestie ex art. 660 c.p., in quanto “nessuna modifica delle proprie abitudini è stata dimostrata, tale non potendosi certo ritenere il cambio della abitazione legato come già osservato, da motivazioni di carattere diverso e precipuamente economico” e che “nel caso concreto non vi è prova di alcuna destabilizzazione personale e familiare in alcuna delle parti offese escusse, molte delle quali hanno dichiarato di voler rimettere la querela anche nelle ipotesi aggravate dall’odio razziale”.

I principi della giurisprudenza. La sentenza di primo grado è stata impugnata, avanti la Corte d’appello di Milano, dal pubblico ministero; nel proprio atto di appello, poi convertito in ricorso per Cassazione per un aspetto formale (inappellabilità della sentenza di condanna alla sola pena dell’ammenda), la pubblica accusa ha dedotto, da una parte, il vizio di violazione di legge in relazione alla qualificazione giuridica dei fatti operata dal giudice di merito (derubricazione del delitto ex art. 612-bis, c.p., nella meno grave contravvenzione ex art. 660, c.p.) e, dall’altra, la contraddittorietà o la carenza della stessa motivazione (frattura logica tra le premesse formulate e le conseguenze tratte).

La Suprema corte, con la sentenza n. 21006/2024, ha ritenuto il ricorso fondato; sul punto, i giudici di legittimità hanno innanzitutto richiamato, proprio in tema di “stalking”, il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui “…nel delitto previsto dall’art. 612-bis cod. pen., che ha natura abituale, l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un’autonoma e unitaria offensività, in quanto è proprio dalla loro reiterazione che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che infine degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dalla norma incriminatrice (sez. 5, n. 54920 dell’8/6/2016, G., Rv. 269081; sez. 5, n. 7899 del 14/1/2019, P., Rv. 275381; sez. 5, n. 51718 del 5/11/2014, T., Rv. 262636)”. 

Fatta questa premessa, la Cassazione ha rilevato come lo stesso Tribunale avesse statuito che “tutte le dettagliate azioni che sarebbero state poste in essere dal (Omissis) hanno trovato piena prova in dibattimento”: l’affissione dei cartelli offensivi, i rumori notturni per disturbare il vicinato, l’apposizione del lucchetto sul cancello, nonché le altre condotte inizialmente qualificate, in termini corretti, come atti persecutori. 

Secondo la Cassazione, il Tribunale, omettendo di considerare le sopra citate prove decisive, ha distorto il patrimonio conoscitivo acquisito nel processo, per cui la struttura logica della motivazione della sentenza impugnata è da considerarsi pregiudicata.

Per queste ragioni, la Cassazione ha annullato la sentenza di primo grado e ha rinviato, per un nuovo giudizio, al medesimo giudice territoriale.

Come capire se si tratta di stalking o molestie? Proprio con riferimento alla riqualificazione giuridica dell’originario addebito di atti persecutori (art. 612-bis) nel reato di molestie o disturbo alle persone (art. 660), la Suprema corte ha evidenziato che i due reati si differenziano principalmente “per il diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta”, oltre che per il bene giuridico protetto dalla norma.

Per quanto riguarda lo stalking, la cui fattispecie protegge la libertà morale delle persone, le condotte persecutorie devono essere idonee a determinare un grave e perdurante stato di ansia, un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto, ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita.

Nella contravvenzione ex art. 660, c.p., invece, le molestie si limitano a infastidire la vittima del reato; infine, i giudici di legittimità hanno sottolineato che il bene giuridico tutelato dall’art. 660 c.p. è rappresentato dall’ordine pubblico e dalla tranquillità pubblica.

Elemento costitutivo del reato di molestie è, dunque, la commissione del fatto in un luogo pubblico, aperto al pubblico ovvero con il mezzo del telefono. Tale circostanza, tuttavia, non si ravvisa nella fattispecie in esame, “ove il contegno invasivo e prevaricatore pare riservato ai rapporti interpersonali nel contesto di un privato condominio”.

Per la Cassazione, in definitiva, l’imputato aveva tenuto una serie di comportamenti ritorsivi che superavano di gran lunga le “semplici” molestie e che erano invece “tipicamente espressivi del delitto di cui all’art. 612 bis c.p.”.