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Abusivismo finanziario ampio

I giudici di Piazza Cavour sulla fattispecie prevista dall’art. 166 del dlgs 58/1998 (Tuf)

Reato proporre investimenti in cripto o prodotti inesistenti

di Nicola Pietrantoni e Marta Bigogno

Proporre investimenti in criptovalute o prodotti finanziari inesistenti, da parte di un soggetto non abilitato, fa scattare il reato di abusivismo finanziario, previsto e punito all’articolo 166, dlgs 58/1998 (Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria, cd. Tuf). Le criptovalute, infatti, possono atteggiarsi, a seconda delle circostanze, come mezzo di pagamento o come mezzo di investimento.

È quanto si legge nella recente sentenza n. 29649/2024 (motivazioni depositate il giorno 19/07/2024), con la quale la Corte di cassazione (Sezione V penale) precisa che la fattispecie si integra inoltre quando le somme destinate agli investimenti non vengono effettivamente utilizzate dal promotore abusivo. Ciò che rileva, infatti, è “…la conclusione di contratti aventi ad oggetto operazioni su strumenti finanziari per conto dei clienti sottoscrittori, percependo le somme destinate a tali fini, dovendosi intendere per investimento di natura finanziaria ogni conferimento di una somma di denaro da parte del risparmiatore con un’aspettativa di profitto o remunerazione ovvero di utilità, unita ad un rischio, a fronte delle disponibilità impiegate in un dato intervallo temporale, non rilevando, a tal fine, l’effettivo impiego di quanto versato dal cliente nello strumento finanziario prospettato dal promotore abusivo”.

Ciò che rileva, infatti, è “…la conclusione di contratti aventi ad oggetto operazioni su strumenti finanziari per conto dei clienti sottoscrittori, percependo le somme destinate a tali fini, dovendosi intendere per investimento di natura finanziaria ogni conferimento di una somma di denaro da parte del risparmiatore con un’aspettativa di profitto o remunerazione ovvero di utilità, unita ad un rischio, a fronte delle disponibilità impiegate in un dato intervallo temporale, non rilevando, a tal fine, l’effettivo impiego di quanto versato dal cliente nello strumento finanziario prospettato dal promotore abusivo”.

È quanto si legge nella recente sentenza n. 29649/2024 (motivazioni depositate il giorno 19/07/2024), con la quale la Corte di cassazione (Sezione V penale) ha rigettato il ricorso di un soggetto che era stato condannato, anche in sede si appello, proprio per il reato di abusivismo.

Il fatto contestato. Dalla lettura della sentenza, emerge che il ricorrente, nel giudizio di merito, era stato riconosciuto colpevole, ex art. 166 Tuf, perché, in assenza della necessaria abilitazione, aveva svolto professionalmente servizi e attività di investimento e aveva offerto fuori sede prodotti o strumenti finanziari, nello specifico proponendo a numerosi clienti una serie di investimenti (in criptovalute, materie prime e altro), gestendo in modo abusivo i capitali raccolti a tali fini, per un importo complessivo pari a più di 2 milioni di euro.

L’articolo 166, comma I, Tuf, infatti punisce, con la reclusione da 1 a 8 anni e con la multa da 4 mila a 10 mila euro, chiunque, senza esservi abilitato a norma dello stesso Tuf, a) svolge servizi o attività di investimento o di gestione collettiva del risparmio, b) offre in Italia quote o azioni di Oicr (organismo di investimento collettivo del risparmio), c) offre, fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumentai finanziari o servizi o attività di investimento, d) gestisce un Apa o un Arm (fornitori di servizi di comunicazione dati) a cui si applicherebbe la deroga prevista dall’art. 2, par. 3, del regolamento Ue  600/2014.

I motivi del ricorso in Cassazione. L’imputato, con il proprio ricorso avanti la Suprema corte, ha contestato la sussistenza dei presupposti oggettivi del reato in questione. Il ricorrente, infatti, ha evidenziato, innanzitutto, come entrambe le sentenze di merito avessero riconosciuto che, ad eccezione delle criptovalute, i prodotti di investimento offerti erano di fatto inesistenti sui mercati finanziari, in quanto creati e sostenuti da documentazione artefatta.

In altre parole, come aveva condiviso anche la Procura generale presso la Corte d’appello, la fattispecie ex art. 166 Tuf si riferisce a prodotti e strumenti finanziari che abbiano un effettivo riscontro nella realtà fenomenica, ovvero, in altri termini, siano scambiati sui mercati finanziari. Ciò troverebbe ulteriore conferma, sempre secondo la prospettiva difensiva, nel bene giuridico protetto dalla norma, e cioè il corretto funzionamento dei mercati finanziari e non la tutela della clientela.

Il ruolo e il significato delle criptovalute.  Con un secondo motivo, il ricorrente ha lamentato l’errata applicazione dell’art. 166, Tuf, anche con riferimento alle criptovalute, rappresentando come queste non possano essere considerate strumenti finanziari, idonei ad essere ricompresi nella condotta penalmente rilevante. In buona sostanza, secondo la difesa, le criptovalute non sarebbero altro che rappresentazioni digitali di valore utilizzate come mezzi di scambio, così come vengono definite all’art. 1, lett. qq), dlgs 231/2007 (normativa antiriciclaggio) e potrebbero essere ricondotte al reato di abusivismo finanziario solo attraverso un’interpretazione analogica in malam partem.

Il giudizio della Corte. La Suprema corte, con la sentenza n. 29649/2024, ha rigettato il ricorso, ritenendo che, né l’inesistenza dei prodotti finanziari offerti dal promotore abusivo, né tanto meno la proposta di acquisto di criptovalute valgano ad escludere l’applicazione dell’art. 166, Tuf.

In particolare, i giudici di legittimità hanno evidenziato che “le censure del ricorrente assumono una connotazione astrattizzante, svincolata dalla specifica indicazione sia delle operazioni di investimento contestate e ritenute dalle conformi sentenze di merito, sia del relativo oggetto, per far leva su una prospettazione di ‘inesistenza’ del prodotto finanziario la cui effettiva portata è tutt’altro che puntualmente dedotta”.

In ogni caso, nel passaggio centrale delle motivazioni, si legge che il reato de quo riguarda qualsiasi investimento di carattere finanziario, che la giurisprudenza di legittimità ha individuato in “ogni conferimento di una somma di denaro da parte del risparmiatore con un’aspettativa di profitto o remunerazione ovvero di utilità, unita ad un rischio, a fronte delle responsabilità impiegate in un dato intervallo temporale”. In questa prospettiva, quindi,non è determinante che la somma conferita dal cliente in vista dell’investimento sia poi effettivamente utilizzatadal promotore abusivo, dal momento che l’effettivo utilizzo costituisce un post factum irrilevante ed estraneo alla struttura stessa del reato (Cass. pen., Sez. V, sent. n. 28157/2015).

Compatibilità delle criptovalute con l’art. 166, Tuf. Quanto poi all’eventuale esclusione delle criptovalute dalla definizione di strumento finanziario, con conseguente inapplicabilità dell’art. 166, Tuf, la Cassazione ha chiarito che la Direttiva 2018/843/Ue definisce le valute virtuali come rappresentazioni di valore digitale che non possiedono lo stato di valuta, ma sono accettate da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio, precisando, al Considerando 10, che le stesse possono essere utilizzate anche per altri scopi, ad esempio come mezzo di investimento.

Lo stesso art. 1, lett. qq), dlgs 231/2007, prosegue la Corte, definisce la valuta virtuale, come “…la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento…”.

Da tali definizioni, emergerebbe con chiarezza la “dimensione proteiforme” delle criptovalute, capaci di atteggiarsi, a seconda delle situazioni, come mezzo di pagamento o come strumento finanziario.

In conclusione, la Corte ha stabilito che il delitto ex art. 166, Tuf, è integrato in caso di mancato utilizzo, da parte del promotore finanziario abusivo, delle somme ricevute dal cliente, anche quando l’offerta di investimento ha ad oggetto criptovalute, che possono essere ricomprese nella definizione di strumento finanziario/mezzo di investimento.

Cass. pen., V Sezione, sent. n. 29649/2024
  È compatibile con il reato di abusivismo finanziario, ex art. 166, Tuf, la proposta alla clientela di investimenti inesistenti o in criptovalute;Rileva, infatti, la conclusione di un contratto avente ad oggetto operazioni su strumenti finanziari per conto dei clienti sottoscrittori e non l’effettivo impiego di quanto versato dal cliente nello strumento finanziario prospettato dal promotore abusivo;Le criptovalute sono da intendersi come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento.