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Nicola Pietrantoni

P.a., è stretta sui mediatori. L’intermediazione è a rischio di responsabilità penale

Avv. Nicola Pietrantoni (ItaliaOggi7, 17 febbraio 2020)

Ogni attività di intermediazione tra privati (o imprese) con la pubblica amministrazione è potenzialmente fonte di responsabilità penale. Il cosiddetto mediatore (o faccendiere nella sua accezione negativa) e il soggetto che lo incarica, infatti, possono rispondere di traffico di influenze illecite (art. 346-bis, c.p.), delitto punito con la reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi. E sta ai giudici distinguere, non senza difficoltà, le intermediazioni illecite da quelle lecite, per esempio di lobbying.

La fattispecie, introdotta con la legge Severino (la legge n. 190 del 6/11/2012) e poi modificata con la legge n. 3 del 9 gennaio 2019 (la cosiddetta Spazzacorrotti), punisce innanzitutto la condotta di chi «sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite» con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, riceve denaro o altra utilità per remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri. La norma prevede anche la responsabilità penale del soggetto (persona fisica, persona giuridica, privato, pubblico, oppure gruppo di persone associate in varie forme) che «…indebitamente dà o promette denaro o altra utilità» proprio per entrare in contatto diretto con la pubblica amministrazione. In buona sostanza, per rientrare nella fattispecie di reato, l’intermediario organizza e condivide con il proprio interlocutore un preciso meccanismo corruttivo finalizzato ad alterare il fisiologico processo decisionale in ambito pubblico. 

Le pene sono poi aumentate ove ricorra una delle seguenti circostanze: il mediatore rivesta, lui stesso, un ruolo pubblico, i fatti siano commessi in ambito giudiziario, la remunerazione del pubblico funzionario sia finalizzata al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.

Il disvalore penale delle condotte sopra richiamate è evidente: per queste ragioni, il legislatore ha voluto stigmatizzare ogni attività anticipatoria di futuri scambi corruttivi, con l’attribuzione della responsabilità penale, a titolo di traffico di influenze illecite, all’intermediario che non abbia concorso negli eventuali successivi fatti di corruzione. 

La formulazione dell’art. 346-bis prevede poi la responsabilità dei medesimi soggetti, il venditore e il compratore di influenze illecite, nel caso in cui il primo «…indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio». La descrizione di questa seconda condotta differisce, in termini significativi, da quella richiamata in precedenza: il corrispettivo («denaro o altra utilità»), in questo caso, non costituisce la remunerazione da destinare al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, bensì rappresenta il prezzo per l’attività di intermediazione con il rappresentante della pubblica amministrazione con cui il mediatore sostiene di avere relazioni o rapporti di conoscenza (veri o presunti non è importante). 

La lettera della norma, nella descrizione di questa specifica condotta, attribuisce, senza alcuna distinzione, una connotazione negativa al prezzo (indebito) corrisposto per l’attività dell’intermediario, nonché alla stessa attività di mediazione (illecita), attraverso una sorte di automatismo che assegna potenziale rilevanza penale a un ventaglio di situazioni e operatività tra loro diversissime: dalle intermediazioni realmente distorsive del potere decisionale statale a quelle fisiologiche e addirittura antitetiche a qualsivoglia finalità corruttiva o comunque illecita. 

Un modello punitivo formulato in questi termini presenta una serie eterogenea di criticità, con particolare riferimento alla stessa portata offensiva della norma al bene giuridico tutelato (il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione) con inevitabili riflessi che si traducono nella eccessiva anticipazione della soglia punitiva, dal momento che vengono punite anche quelle intermediazioni che potrebbero essere, ma che non sono ancora e forse non saranno mai, strumentali a eventuali condotte illecite (per esempio, corruzioni), con il rischio concreto di consentire troppa discrezionalità alla iniziativa giudiziaria.

La scarsa applicazione giurisprudenziale del delitto in esame, anche dopo la riforma del gennaio 2019, origina proprio dalle oggettive difficoltà di distinguere, con sufficiente precisione e determinatezza, le intermediazioni illecite da quelle lecite, operazione che risulta ancora più complessa ove vengano considerate tutte quelle fisiologiche iniziative di lobbying che non trovano, ancora oggi, una efficace e adeguata regolamentazione. 

Il delitto in esame, come altre fattispecie introdotte nel nostro ordinamento, ha una derivazione di matrice sovranazionale. La convenzione di Strasburgo del 1999 e la convenzione Onu di Merida del 2003 (entrambe ratificate in Italia), infatti, hanno chiesto agli stati membri di valutare tutti i possibili strumenti normativi, compreso quello penale («Party shall consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as criminal offences…», Cfr. Convenzione Onu di Merida), per contrastare il fenomeno di «trading in influence». 

Nel 2012, il legislatore nazionale, a differenza di altri Paesi firmatari della convenzione di Strasburgo (per esempio, Danimarca, Germania, Regno Unito e Svezia) ha introdotto, direttamente nel codice penale, il nuovo reato di «traffico di influenze illecite» (art. 346-bis, c.p.) con l’intenzione di reprimere tutte quelle intermediazioni che venivano prevalentemente ricondotte, prima della riforma del 2012, al paradigma punitivo della corruzione o del c.d. millantato credito (art. 346 c.p.), fattispecie, quest’ultima, che si integrava anche qualora la relazione vantata dal mediatore con il pubblico funzionario fosse reale, ma amplificata a tal punto da ingannare il soggetto che pagava il prezzo della mediazione (e, per questo motivo, non rispondeva penalmente in quanto vittima del reato).

Anche dopo l’intervento del 2012, la giurisprudenza penale ha dovuto spesso riqualificare fatti di traffico di influenze illecite in reati più tradizionali (corruzione, concussione, induzione indebita, millantato credito), con le inevitabili difficoltà di collocare queste particolarissime condotte commesse contro la pubblica amministrazione in modelli delittuosi, in un certo senso, molto diversi.

Il legislatore del 2019, da una parte, ha abrogato il millantato credito (art. 346, c.p.), dall’altra, ha riformulato l’art. 346-bis c.p., prevedendo la consumazione del reato anche qualora il rapporto vantato dal mediatore con il pubblico funzionario sia, in realtà, inesistente e nel caso in cui il «denaro o altra utilità» vengano destinati al pubblico funzionario in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.

Significativa, infine, la previsione della responsabilità amministrativa (ex dlgs 231/2001) nei confronti delle persone giuridiche nell’ipotesi di traffico di influenze illecite realizzato, nel loro interesse o vantaggio, da coloro che rivestono posizioni apicali o da soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza di questi.

Nonostante le modifiche strutturali intervenute, però, rimangono invariate quelle criticità profonde, di cui si è già accennato, che sembrano proprio connotare anche l’attuale «art. 346-bis», norma che, va detto, negli ultimi mesi è stata spesso evocata dagli organi di informazione che hanno riportato l’esistenza di indagini preliminari nel cui ambito viene ipotizzato, a carico di alcuni indagati, proprio il delitto in esame.