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Esser solo prestanome non salva 

Scatta la condanna per avere omesso il doveroso controllo  

La Suprema corte delimita responsabilità e obblighi di amministratori di diritto e di fatto 

L’esser prestanome non salva dalla condanna per reati ambientali e di sicurezza sul lavoro. Anche l’amministratore di diritto, infatti, può rispondere di quanto commesso dall’amministratore di fatto di una società se omette il doveroso controllo sulle attività di quest’ultimo. La colpevolezza del cosiddetto prestanome, in questi casi, non fonda su una responsabilità oggettiva (per il solo fatto, cioè, di ricoprire una carica formale), ma sull’assunzione consapevole della carica di amministratore e sui conseguenti obblighi che gravano sulla stessa. Più nello specifico, in materia ambientale e di salute/sicurezza dei lavoratori, questi può essere condannato per aver omesso di esercitare il necessario controllo sulle attività illecite realizzate proprio dall’amministratore di fatto.

Il principio è espresso nella sentenza n. 42236/2023 (motivazioni depositate il 17/10/2023), con la quale la Corte di cassazione (III Sezione penale) ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’amministratore unico di una società, condannata insieme al proprio figlio (amministratore di fatto della medesima società) per l’attività di gestione di rifiuti non autorizzata (ex art. 256, comma 1, lettera a, dlgs n. 152/2006) e per la violazione di altre norme in tema di salute e sicurezza dei lavoratori (ex dlgs n. 81/2008).

Il caso. In merito alla condanna per i reati ambientali, la difesa ha sostenuto, dinanzi alla Corte di cassazione, che i giudici di merito avrebbero erroneamente confermato la responsabilità penale dell’imputata per il solo fatto che questa ricoprisse il ruolo formale di amministratore unico, “…senza individuare specifici elementi a sostegno della condivisione da parte della stessa delle finalità illecite e della consapevolezza, al momento di accettazione della carica, della strumentalizzazione di quella società alla realizzazione di specifici reati”. 

Per queste ragioni, si legge sempre nella sentenza in esame, la difesa ha ritenuto che “…i giudici avrebbero quindi dovuto descrivere la condotta della ricorrente, il suo apporto anche solo in termini di eventuale tolleranza nella gestione illecita posta in essere dal figlio, coimputato nel presente procedimento quale amministratore di fatto”.

In buona sostanza, secondo questa impostazione, la signora avrebbe prestato il proprio nome e la propria firma solo per la creazione di un’attività imprenditoriale lecita, come risulterebbe da una serie di circostanze che sarebbero emerse durante l’istruttoria dibattimentale: innanzitutto, l’imputata avrebbe acquistato un ramo d’azienda e un capannone già autorizzati alla gestione di rifiuti in forma semplificata; in secondo luogo, l’imputata avrebbe sottoscritto un contratto relativo alla locazione di un capannone ove, per quanto a sua conoscenza, il figlio aveva l’intenzione di trasferire la ditta autorizzata per il commercio di rottami, e non quella di destinare quel sito alla gestione illecita di rifiuti.

La difesa ha poi sostenuto che il tempo limitato (quattro mesi) in cui la signora ha ricoperto la carica di amministratore unico “…renderebbe ancora più illogico il ragionamento dei giudici territoriali, in quanto il tracollo dell’attività sarebbe stato così repentino da impedire alla madre di rendersi conto di quanto stesse accadendo pur in costanza del proprio ruolo formale, non potendo sospettare che in così poco tempo il figlio riempisse di rifiuti sia il capannone principale che quello destinato alla ditta di rottami…”.

In ordine all’imputazione ex dlgs 81/2008, la ricorrente ha sostanzialmente offerto alla Corte le stesse argomentazioni utilizzate a sostegno dell’insussistenza dei reati ambientali. In particolare, si legge sempre nella sentenza n. 42236/2023, la difesa ha ritenuto che la condanna per i reati contestati (omessa presentazione della segnalazione certificata di inizio attività per i soli siti non autorizzati e omessa adozione delle misure prevenzionistiche) sia intervenuta solo per aver ricoperto la carica formale di amministratore di diritto.

In altre parole, la Corte di appello avrebbe condannato l’imputata “…in assenza di elementi che ne comprovassero la condivisione dell’attività illecita ivi svolta dal figlio, atteso che anche la titolarità di una posizione di garanzia propria del datore di lavoro non può prescindere dal principio di effettività ed alla corretta vicinanza all’area di rischio presidiata dalle norme che si assumono violate, accompagnata da un concreto potere di intervento”.

Secondo la pubblica accusa, invece, i giudici di merito hanno correttamente inquadrato la figura e il ruolo dell’imputata nella gestione delle attività illecite oggetto di imputazione, “…motivando adeguatamente su come l’interessata, rispondendo come amministratore di diritto dal punto di vista oggettivo, unitamente all’amministratore di fatto, per non aver impedito l’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire, dal punto di vista soggettivo, la stessa avesse quantomeno la generica consapevolezza degli illeciti perpetrati dall’amministratore effettivo”.

Il procuratore generale ha poi valorizzato, in chiave accusatoria, il fatto che l’imputata non fosse persona estranea al mondo imprenditoriale e in piena sintonia con l’operatività del figlio, con il quale lavorava a stretto contatto.

La decisione della Cassazione. I giudici di legittimità, condividendo la linea dell’accusa, hanno dichiarato inammissibile il ricorso e manifestamente infondati i due principali motivi.

In particolare, in merito al tema dei rifiuti, la Corte ha condiviso la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, secondo i quali l’imputata, non certo sprovveduta avendo esercitato il mestiere di commerciante, “…aveva assunto consapevolmente la carica di amministratore unico della predetta società, perfettamente conscia del fatto che sulla stessa gravavano una serie di obblighi, compresi quelli inerenti alla tutela dell’ambiente”; per questo motivo, secondo la Corte, “…perde di spessore argomentativo l’alternativa versione difensiva fondata sulla sostanziale buona fede della ricorrente”.

In merito alle doglianze sulla presunta responsabilità oggettiva dell’imputata, la Cassazione ha ricordato che le imputazioni contestate riguardano tutte fattispecie punibili a titolo di colpa. Ciò significa, in termini generali, che l’amministratore di diritto risponde per i reati contravvenzionali commessi dall’amministratore di fatto, qualora abbia omesso, sia pure per colpa, di esercitare il necessario controllo sull’operatività di quest’ultimo.

Sul punto, i giudici hanno precisato che “…un parametro di valutazione circa l’effettiva e concreta possibilità di impedire la consumazione del reato posto in essere dall’amministratore di fatto può essere offerto dalle disposizioni di cui all’art. 6 dlgs n. 231 del 2001, in tema di esclusione della responsabilità dell’ente per il reato commesso dall’amministratore e dalle persone sottoposte alla sua direzione e vigilanza” (Cfr. Cass. pen., sent. n. 25313, 10/12/2014).

Con riferimento, infine, ai reati previsti ex dlgs 81/2008, la Corte ha richiamato gli stessi principi, superando così l’argomentazione difensiva secondo cui sarebbe stata attribuita la responsabilità di prestanome del figlio senza che emergesse una concreta posizione di garanzia della ricorrente.

A questo proposito, la Suprema corte ha ribadito il principio secondo cui “…in tema di infortuni sul lavoro, la responsabilità dell’amministratore della società, cui fa capo il rapporto di lavoro con il dipendente e la posizione di garanzia nei confronti dello stesso, non viene meno per il fatto che il menzionato ruolo sia meramente apparente, essendo invero configurabile, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 e 299 dlgs 8 aprile 2008, n. 81, la corresponsabilità del datore di lavoro e quella di colui che, pur se privo di tale investitura, ne eserciti, in concreto, i poteri giuridici”.